Il cucchiaio e l’elefante
“Il cucchiaio non esiste” così dice il piccolo bambino buddista a Neo in Matrix, per spiegargli come riesca a piegare il cucchiaio con la mente.
Significa “lascia andare le tue convinzioni, abbandona gli schemi logici con cui ti sei costruito il mondo che stai vivendo”.
Qualche decennio prima, prima ancora che i fratelli (ora sorelle) Wachowski nascessero, Wittgenstein affermò davanti al suo professore Bertrand Russell “C’è un elefante in questa stanza”. E Russell non riuscì a dimostrare il contrario (non mostrare, ma dimostrare con la logica).
Significa “siamo imprigionati negli schemi del nostro linguaggio. Siamo linguaggio.”
Questa estrema ellissi tra un’affermazione della realtà (l’elefante è nella stanza) e una sua negazione (il cucchiaio non esiste), mostra in fondo lo stesso meccanismo: ciò che chiamiamo “reale” è una conseguenza. Di convinzioni, convenzioni, schemi, sintassi, grammatiche… chiamiamole come vogliamo. Il senso non cambia.
Non possiamo farci molto, se non prenderne coscienza. E sarebbe già una conquista immensa che ci porterebbe immediatamente in un’altra dimensione, personale e sociale, di critica e insieme di accettazione. Saremmo realmente (per quanto abbia senso questo aggettivo) cosmopoliti.
“Diventare cittadino del mondo significa spesso intraprendere un cammino solitario, una sorta di esilio, lontani dalla comodità delle verità certe, dal sentimento rassicurante di essere circondati da persone che condividono le nostre stesse convinzioni e ideali” (Martha Nussbaum, 1999)